mercoledì 10 novembre 2021

Alla ricerca dell’Energia pulita e sostenibile (Ezio Roppolo)

    Alcune tessere del mosaico sociale, che rappresenta lo scenario in cui siamo tutti abituati a muoverci, appaiono solide come rocce. E poi ci lasciano basiti e senza punti di riferimento quando improvvisamente si sgretolano come castelli di sabbia alla prima onda lunga.
Sono rimasto personalmente sconcertato dal constatare come ogni singolo talebano riesca a terrorizzare ben 333 afgani. Mi sorprende anche la più grande economia del mondo: maestra di management e democrazia, ma è riuscita a dilapidare in quel paese 3300 dollari pro-capite all’anno per 30 anni. L’Europa in confronto, ci affida 700 euro caduno per 5 anni e si aspetta che noi si recuperi il territorio, si sistemi il nostro apparato burocratico e per di più che diventiamo “ecologici”…. mah !

L’energia idro-elettrica: tappezzeria “pulita” o protagonista poco raccomandabile ?

Parlando di ecologia e di energia, proviamo allora ad analizzare un’altra di queste tessere chiave.

Quasi tutti gli italiani, anche quelli che vivono nei territori interessati, maneggiano poche informazioni circa la realtà del settore idroelettrico: solo quelle che rappresentano la faccia “bella” della medaglia.

Tutti infatti sanno che questa modalità di produzione dell’energia è “pulita”: salvo particolari eccezioni, essa non produce anidride carbonica (CO2) o altre emissioni inquinanti, è “rinnovabile” perché basata su una fonte primaria (l’acqua) che “gratuitamente” ritorna in grado di produrre quanto aveva generato l’anno precedente.

Già sono meno numerosi quelli che sanno indicare l’idroelettrico come la più efficiente modalità di produzione di energia “immediatamente sfruttabile” e quindi economicamente meno costosa.

Ancora più raramente si trovano persone consapevoli che questa fonte, essendo “programmabile” in funzione dei consumi, è pregiata persino rispetto alle altre rinnovabili più diffuse (solare ed eolica).

Gli aspetti negativi indissolubilmente connessi con l’idroelettrico, invece, sono conosciuti da pochissimi e spesso neppure tutti gli “addetti ai lavori” ne hanno una visione davvero complessiva.

Chi si interessa degli aspetti ambientali, ad esempio, sa che l’impatto iniziale dell’impiantistica è letteralmente devastante per il territorio, per la flora e per la fauna. Esso si protrae nel tempo oltre la vita economica - cioè, non fino alla dismissione ma fino a quando non verrà smantellata e rimossa – e si estende nello spazio – non solo fino al punto di re-immissione delle acque turbinate nel corso d’acqua ma spesso fino al mare. Anzi, ormai, l’impatto sul cambiamento climatico globale degli impianti idroelettrici, di dimensioni sempre maggiori in tutti i continenti abitati, è ormai così forte da prevedere la riduzione della disponibilità di acqua anche per la produzione. Ironia della sorte o, meglio, risposta della natura.

Chi si interessa degli aspetti tecnici conosce d’altro canto l’importanza e la necessità di assidui programmi di manutenzione per garantire sia l’efficienza sia, soprattutto, la sicurezza per l’incolumità della popolazione a valle degli impianti. E’ anche consapevole che in Europa, in Italia più ancora, le opportunità di installare nuovi impianti di rilievo sono praticamente nulle. Sa anche che gli impianti italiani sono ormai dannatamente vecchi e non attrezzati per il monitoraggio statale del consumo di acqua e della produzione di energia.

Chi, infine, è attento agli aspetti sociali ed economici del settore ricorda quanto sia stato importante per lo sviluppo delle economie nazionali. Conosce peraltro anche l’impatto socio economico distruttivo sulle economie locali dei territori gravati dagli impianti: spopolamento e desertificazione del tessuto economico.

Secondo diversi studi, mediamente meno del 20 % del valore aggiunto dalla produzione idroelettrica resta infatti nel territorio di origine: i benefici sociali vanno a vantaggio di pianure e grandi centri urbani mentre gli utili economico finanziari sono appannaggio degli operatori, spesso multinazionali dell’energia, in Italia anche aziende con capitale in gran parte pubblico.

Il mini-idroelettrico all’italiana

Nonostante questi clamorosi svantaggi e i disastri durante il boom economico, la politica e le amministrazioni pubbliche negli anni più recenti si sono adoperate per facilitare lo sfruttamento intensivo delle risorse idriche di più modesta rilevanza. Hanno favorito la corsa all’oro (azzurro) dell’ultimo “idro- kilowatt” persino nelle parti più alte delle montagne, dove il danno ambientale è più forte, sia per delicatezza e fragilità degli ecosistemi, sia per il maggior impatto del cambiamento climatico alle quote più elevate.

Perché parliamo di modalità insensate? La normativa e la sua applicazione sono talmente assurde da favorire l’iniziativa privata a danno economico tangibile ed immediato delle piccole comunità di montagna (Comuni e Consorzi irrigui) e di consentire il progressivo e inarrestabile degrado dell’ambiente, cui poi si destinano risorse per il dissesto idrogeologico, magari poche, ma sicuramente pubbliche.

Infatti, l’Italia è un orto botanico pieno di fiori rari ed esotici… esempi dalla maggior parte delle Regioni di ogni immaginabile artificio, con in comune lo sfruttamento scriteriato della risorsa e/o delle falle del sistema e della dabbenaggine dei cittadini. Si va dal rendere impraticabili le attività agricole o turistiche insediate da tempo alle “cascate ad orario” per consentirle, ma solo in momenti prestabiliti.

Oppure, si trovano agevolmente Consorzi di Miglioramento Fondiario con bilanci stile “nozze con i fichi secchi” cui gli “esperti” del settore riservano qualche briciola (e anelli da mettere al naso degli amministratori), trattenendo per sé utili da banchetti pantagruelici, naturalmente utilizzando molto liberamente l’acqua derivata per l’irrigazione.

E, si, non si possono chiamare “imprenditori” … al massimo, diciamo, “esperti”. Una delle caratteristiche di fare impresa è infatti il fattore “rischio”, che però NON ESISTE praticamente nel caso dell’impianto di un’attività di mini-idroelettrico.

Questo è proprio il risultato del programma nazionale di incentivazione alla produzione delle energie rinnovabili che, con le nostre bollette di casa, paga per decenni i kilowattora prodotti in questo modo a prezzo vantaggioso e fisso, annullando di fatto ogni possibile rischio di impresa.

Nel contempo, i torrenti e i loro alvei vengono disseccati e resi improduttivi e franosi, anche quelli che beneficiano del “deflusso minimo vitale” e si interrompono e danneggiano mortalmente le catene alimentari. Il rispetto del DMV mai è realmente controllato.

Quanto finora esposto è puramente discorsivo e non supportato da evidenze quantitative o da una bibliografia accurata. Mi auguro di aver stimolato un elevato numero di lettori riflessivi e curiosi, che potranno trovare facilmente in Rete una messe di informazioni, studi e notizie che consentono di verificare su scala globale ogni elemento dello scenario delineato.

Nel seguito di questo scritto, vorrei analizzare ad un livello di dettaglio più approfondito proprio il tema del mini-idroelettrico, mettendo in luce in modo particolare il tema socio-economico.

Un caso molto locale e molto significativo

A questo scopo, posto il livello delle risorse disponibile a chi scrive, mi limiterò a utilizzare dati territoriali pubblicamente disponibili nella più piccola delle regioni italiane, la Valle d’Aosta, ricordando però che le considerazioni qualitative emergenti possono certamente essere applicate a tutta l’Italia.

In Valle, 3200 kmq di superficie, tutti i Comuni hanno corsi d’acqua con portate e salti sfruttabili per installazioni idroelettriche. Solo Aosta ha più di 10.000 abitanti e strutture organizzative di cui non dispongono gli altri 72 Comuni; 60 di questi contano meno di 2000 residenti.

Oltre ai Comuni, in Valle d’Aosta sono attivi ben 176 Consorzi di Miglioramento Fondiario (CMF), che la Regione, nel corso dei decenni ha supportato nell’investire in derivazioni dei corsi d’acqua e in acquedotti per irrigare pascoli e terreni agricoli. Come facilmente si può immaginare, questi impianti sono mediamente “vecchiotti” e necessiterebbero di nuovi investimenti in manutenzione straordinaria e aggiornamento tecnico, ma il denaro … non esce direttamente dai tubi dell’acqua.

Oltre agli agricoltori professionali, i Consorzi sono composti da moltissimi proprietari di fondi pertinenziali o comunque piccoli, cioè chi ha il giardino o l’orto dietro casa e può usare questo acquedotto per la coltivazione, risparmiando l’acqua potabile. Supponendo che ogni Consorzio abbia mediamente almeno un centinaio di associati e considerando che la proprietà dei fondi sia familiare, parliamo di circa 40.000 persone interessate alla questione, all’incirca un terzo della popolazione regionale.

In realtà, la frazione di popolazione interessata potrebbe anche essere superiore, ma non sembrano disponibili dati statistici in merito, come neppure lo sono quelli relativi alla superficie territoriale coinvolta. Basandosi su qualche dato colto da fonti non specifiche, si può ipotizzare che la superficie media del bacino idrografico di pertinenza del Consorzio si aggiri sui 10 kmq (un rettangolo di 5 km di lunghezza per 2 di larghezza). Pur con tutte le approssimazioni del caso, possiamo facilmente notare che la superficie complessiva è vicina alla metà di quella dell’intera Regione (10 kmq* 176 consorzi/3263= 54 %).

Ci confrontiamo quindi con una questione tutt’altro che trascurabile, sia territorialmente – quindi ambientalmente – sia socialmente – quindi economicamente - .

Gli idro-operatori, le piccole comunità e la Regione

L’opportunità di sfruttamento delle tecnologie “mini-idro” avrebbe quindi dovuto essere colta dai Comuni e dai CMF, con l’attenzione per l’ambiente che certamente metterebbe chi vive da vicino, anzi, proprio sul posto, la realtà locale. Non solo, le risorse economiche prodotte in questo modo potrebbero risolvere, o almeno alleviare molto, le difficoltà di bilancio che questi piccoli enti giustamente lamentano ormai da anni.

Certamente, peraltro, le competenze e le risorse economiche per sviluppare queste iniziative non sono nella disponibilità di queste mini organizzazioni. Tuttavia, la Regione Autonoma, con circa 3000 addetti, avrebbe potuto sopperire alle necessità amministrative per la migliore gestione del territorio e delle attività agricolo-ambientali ed energetiche.

Una ulteriore spinta in questa direzione avrebbe dovuto provenire dalla considerazione che la Regione stessa possiede le acque e i corsi d’acqua, poiché il Demanio dello Stato italiano li ha ceduti con il riconoscimento dello Statuto Speciale: si sarebbe quindi trattato di sviluppare la struttura e di meglio utilizzare una dotazione del proprio patrimonio. Considerazione banale: la avrebbe proposta e si sarebbe comportato di conseguenza ogni “buon padre di famiglia”; questa definizione non è di chi scrive, ma è di buon senso e anche del Codice Civile.

La realtà esistente è però “leggermente” disallineata rispetto alle attese indicate.

Le maggiori concessioni idroelettriche sono operate dalla Compagnia Valdostana delle Acque, azienda di proprietà regionale che produce e distribuisce esclusivamente energia da fonti rinnovabili, con una potenza nominale installata di oltre 1000 MW su 28 centrali idroelettriche. Fin qui, tutto sarebbe positivo se questa società si impegnasse veramente a favore di una rapida e completa transizione ecologica…

A parte quelle di CVA, in Valle d’Aosta nella primavera 2019, erano attive altre 65 concessioni ad uso idroelettrico, mentre altre 26 domande erano in corso di valutazione.

Delle prime 65, due solamente sono da considerarsi “grandi derivazioni”, cioè hanno una “potenza nominale” (calcolata secondo regole standard) superiore ai 3 MW; per rendere l’idea, questa è una potenza pari a quella di una trentina di auto di medio livello.

La somma delle potenze delle 63 rimanenti, 10,6 MW, curiosamente, è circa pari a quella delle due più grandi. Naturalmente le due grandi sono operate da aziende private, quindi orientate a produrre profitti economici, prioritariamente rispetto alle esigenze di ambiente e popolazione.

Ma la vera “sorpresa” è che l’86 % di quella potenza nominale – la capacità di produzione di energia e quindi di profitto - delle 63 concessioni è in capo a 38 società private di capitali, quindi operatori “professionali” dell’energia. Analizzando inoltre le 26 domande “in progress”, si trovava una situazione analoga: 18 sono relative a s.r.l. del settore e si può facilmente intuire che le potenze residuali siano lasciate ad altri.

Le rimanenti 25 di 63 concessioni operano sul 14 % di cui sopra, cioè 1,5 MW, diciamo quindi 2 automobili per concessionario contro le 24 degli “operatori professionali”. Queste 25, piccole tra i piccoli, sono in capo a CMF e a privati cittadini (presumibilmente operatori agricoli-turistici individuali); la più piccola appartiene all’Ente Parco Nazionale Gran Paradiso.

Da quanto si può già comprendere dall’esposizione, sembra lecito affermare che Stato nazionale e Regione Autonoma non abbiano supportato i primi e più “logici” aventi causa a utilizzare l’opportunità offerta dagli sviluppi tecnologici del mini-idroelettrico. Con la normativa “ciecamente” favorevole all’energia rinnovabile, sono venuti meno alle loro finalità istituzionali di supporto alle attività di interesse territoriale e di miglioramento delle proprie dotazioni patrimoniali. E non si può sacrificare, comunque e a prescindere, un “bene comune” prezioso come l’acqua sull’altare della “concorrenza” e della maggior produzione elettrica, quando la stessa Europa concorda sulla preminenza dell’interesse pubblico: quello della salvaguardia ambientale e quello delle comunità locali.

Ad esempio, brillano in Valle d’Aosta per la loro totale assenza le operazioni di sfruttamento degli acquedotti per uso umano e delle fognature, che sono pur sempre flussi di acqua già in condotta e con interessanti pendenze, data la conformazione del territorio. Eppure, è certamente ben noto anche all’Amministrazione Regionale che gli acquedotti comunali…. fanno acqua da tutte le parti…. oltre che dai rubinetti: sfruttarli come fonte di energia sarebbe stata una operazione di grande valore anche per ristrutturarli e ammodernarli !

Le leggi di Darwin e quella dell’avidità: fino a quando vince il più furbo ?

Viene allora naturale domandarsi se gli “operatori professionali” abbiano almeno avuto un approccio “etico” alle relazioni con i propri interlocutori e se Comuni e CMF abbiano saputo difendere adeguatamente i propri interessi, pur nella già riconosciuta carenza di strutture organizzative e competenze specifiche.

Le risposte individuate nel seguito non possono essere generalizzate, in quanto riportano situazioni di casi specifici sicuramente rappresentativi di una realtà diffusa, ma non statisticamente dimostrabile con i dati disponibili.

Dato che la possibilità di sfruttamento di corsi d’acqua per nuovi siti produttivi era già al tempo ormai praticamente inesistente, salvo le accennate scriteriatissime operazioni in alta quota, era importante utilizzare le concessioni e le derivazioni esistenti per scopi irrigui al fine di realizzare gli impianti idroelettrici.

Qui entravano in gioco i citati CMF e, marginalmente, alcuni Comuni. Per l’approvazione di una nuova Concessione ad uso idroelettrico era necessario stipulare una “convenzione” tra il CMF, titolare della derivazione ad uso irriguo o comunque agri-zootecnico, e il futuro concessionario idroelettrico.

Alcune delle convenzioni esaminate sono connotate da un discreto livello professionale, sebbene sicuramente migliorabili sotto il profilo giuridico oltre che sul piano squisitamente commerciale operativo. Tutte, senza eccezioni, contengono clausole talmente svantaggiose per i Consorzi da essere considerate davvero inaccettabili. Un potenziale partner che presentasse proposte di quel tenore dovrebbe essere declinato immediatamente e senza remore da chiunque fosse consapevole di quanto sta negoziando.

Altre convenzioni sono primitive al punto che sicuramente una stretta di mano avrebbe vincolato l’operatore professionale ad un comportamento maggiormente etico nei confronti del Consorzio. Riservo però le spigolature più gustose a chi volesse privatamente approfondire questo aspetto.

Per ottenere la concessione è poi necessario presentare alla Valutazione di Impatto Ambientale il progetto di tutte le opere: in generale la derivazione con le vasche di decantazione, la condotta, la centrale di produzione, la condotta di restituzione e l’elettrodotto di collegamento alla Rete.

L’esame di queste VIA ha suscitato perplessità.

Ad esempio, per un’area riconosciuta a rischio idrogeologico non vengono proposte opere idonee con accorgimenti per la riduzione del rischio, ma viene ugualmente richiesta l’autorizzazione che, se concessa, riporta il rischio sull’Ente concedente anziché in capo all’esecutore dell’opera. In un altro caso, si sfrutta l’opera di derivazione esistente – evidentemente di concezione obsoleta – esplicitamente negando la necessità di prevedere nella progettazione, quindi ovviamente neppure realizzare, gli accorgimenti necessari per consentire il superamento dell’ostacolo da parte delle specie ittiche locali.

Eppure è ormai perfettamente noto a chiunque nel settore che l’interruzione di una qualsiasi parte della catena alimentare squilibra l’intero ecosistema locale: flora, fauna ma anche clima e persino consistenza geologica dei terreni. Questo concetto spiega quanto fragili siano gli equilibri che la derivazione del flusso naturale del corso d’acqua va a “disturbare”. Anzi, il fatto che il flusso “turbinato” venga reimmesso in alveo “tutto in un punto” propaga a valle la perturbazione dell’equilibrio ecologico, tanto più che quest’acqua è praticamente priva di detriti (decantati a monte, per non corrodere le turbine) di vari tipi e funzionalità naturali che sarebbero stati trascinati a valle.

I progetti VIA di cui sopra contengono anche dati interessanti circa i flussi di acqua prelevata e talvolta anche sulle potenzialità economiche. L’analisi di qualche caso mostra che il principio progettuale delle derivazioni è solitamente quello di derivare, cioè prelevare, “tutta l’acqua possibile”. Laddove è previsto un “deflusso minimo vitale” (DMV), si consente al corso d’acqua di mantenere al massimo quella portata, costringendo il tratto di fiume al livello minimo di sopravvivenza, sempre che la valutazione del DMV fosse corretta e i fattori determinanti non si modifichino nel corso del tempo, portando così alla fine dell’ecosistema pre-esistente.

La portata di acqua, insieme alla differenza di altezza tra derivazione e centrale, sono i fattori che determinano la potenza dell’impianto e l’energia che se ne può ricavare durante il funzionamento. L’energia elettrica prodotta, quando non auto-consumata, viene venduta alla Rete Nazionale. Poiché nascente da fonte rinnovabile, il prezzo di questa energia è “incentivato” cioè in genere superiore a quello “di mercato”. L’incentivazione pagata al produttore dalla Rete viene riversata in bolletta agli utenti italiani.

Il trattamento “di favore” ricevuto dal produttore è però in realtà “doppio”: infatti questo prezzo è fisso per tutta la durata della concessione. In tal modo, il rischio commerciale dell’impresa è del tutto annullato.

Inoltre, poiché la tecnologia idroelettrica è davvero molto matura, il rischio tecnico intrinseco alla realizzazione dell’impianto è, esso pure, praticamente nullo. Ancora, il sistema bancario premia sistematicamente un’attività senza rischi, finanziandola totalmente. Tirando le somme, l’attività in questione NON può essere catalogata tra quelle davvero “di impresa”, proprio perché non è caratterizzata dal rischio imprenditoriale.

Essa è d’altra parte alquanto remunerativa, dato che se ne può trarre un reddito, sostanzialmente fisso e prevedibile per una durata considerevole, senza neppure investire e rischiare un euro di capitale proprio.

Secondo i conteggi esposti, una potenza nominale di 250 KW sarebbe in grado di produrre un profitto prima delle tasse di circa 180.000 euro all’anno, che è un risultato molto godibile anche con il livello italiano della tassazione.

A fronte di queste considerazioni, appare quindi difficilmente spiegabile il quadro descritto in precedenza, in cui un numero importante di Consorzi abbia in massa delegato ad altri la facoltà di trarre profitto da risorse proprie, a fronte del pagamento dei popcorn…. a quanto visto, circa il 3 % del fatturato, ovvero circa il 6 % degli utili netti.

E’ poi davvero strano che condizioni così interessanti abbiano attratto solo un piccolo manipolo di aficionados: i gruppi di interesse attivi in Regione in questo ambito si possono infatti contare con le dita di una sola mano.

Questi “fortunelli” mettono anche in atto schemi di comportamento atti a migliorare indebitamente il livello di redditività intrinseco.

Ad esempio, si può ricordare il caso di un Comune che era stato inizialmente coinvolto nella compagine sociale “idroelettrica” con una quota rilevante. Tale partecipazione aveva prodotto un dividendo importante in valore assoluto. Per evitare di continuare a erogare cifre di quel livello (si parlava di circa un milione di euro annui), il resto della compagine sociale provvide immediatamente ad effettuare un forte aumento di capitale, che il Comune ovviamente declinò e, successivamente, nessun altro Comune entrò in società simili.

Addirittura, e non raramente, dopo aver superato il limite dell’etico, sullo slancio tali comportamenti superano anche quelli del lecito.

Seppure con la dovuta calma, l’autorità competente procede infatti ad effettuare controlli sul prelievo puntuale di acqua dai quali si evidenziano molto spesso infrazioni, anche di quantità significative.

Ebbene, non soltanto i concessionari “eccedono frequentemente”, ma si rifiutano pure di pagare le poche sanzioni comminate. Infatti, nessuna delle 153 sanzioni erogate dopo il 2016 in Valle d’Aosta è stata pagata e tutte le contestazioni giacciono in attesa di giudizio.

A questo proposito, è opportuno evidenziare come la redditività dell’impianto può essere moltiplicata fino a 5 volte rispetto ai già remunerativi valori di progetto, cioè quelli definiti dai prelievi autorizzati e pur rispettando (come sopra indicato) i valori di DMV prescritti. E’ quindi pratica del tutto usuale quella di superare stabilmente il livello previsto di prelievo intanto, se ti “beccano”, puoi sempre contestare.

In conclusione, il mini-idroelettrico che produce energia molto teoricamente senza danni ambientali e molto costosa per la comunità, si è rivelata soprattutto un’appetitosa opportunità di business, a svantaggio della natura e degli abitanti del territorio.


Questo scritto è dunque finalizzato ad una presa collettiva di coscienza, con l’augurio che politica e amministrazione intervengano almeno per una volta in modo favorevole al territorio, ma anche ai diretti interessati perché pongano maggiore attenzione al proprio patrimonio naturale, una parte di quello scenario che tutti consideriamo “garantito”, ma che è invece seriamente a rischio e, come esposto, non solo a quello del cambiamento climatico.

Ezio Roppolo, ingegnere


Ringrazio sentitamente la prof. R.Bertolin per la fattiva collaborazione, soprattutto per quanto concerne la ricerca di dati, informazioni e documentazione tra cui le seguenti foto tutte scattate negli ultimi anni in Valle d’Aosta.

I torrenti nella tropicale estate valdostana


Il deflusso MINIMO VITALE a valle delle derivazioni per il mini - idroelettrico




Lavori per impianti idroelettrici nelle incontaminate valli valdostane (2000 m slm)